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"I'm brave but I'm chicken shit"

Cronache da una pandemia, S01E13

Quando le aziende cominciano a crescere, a essere strutturate, ad avere un mercato e un fatturato abbastanza sostanziosi, cominciano a porsi delle domande. “Su cosa mi appoggio per erogare i mei servizi e creare i miei prodotti? Cosa succederebbe se, improvvisamente, sparissero le infrastrutture che utilizzo? In parte? Completamente? Cosa succede se arriva un terremoto? Se scoppia un incendio? Se tutte le strade che portano ai miei uffici e/o fabbriche si interrompono? Se non arriva più l’energia elettrica? E se il Cialtronistan ci dichiarasse guerra e sganciasse una bomba sui nostri edifici?”

A questo punto i capoccioni dell’azienda si chiudono in una stanza e calcolano quanto costa stare fermi. immobili, con gli uffici chiusi e le fabbriche spente. Per un’ora, un giorno, un mese, un anno. Se ne escono con una cifra e dichiarano “Siamo disposti a spendere questi soldi da ora e per sempre per essere abbastanza sicuri che in caso di disastro si riesca a ripartire in un tempo ragionevole”. Dove “ragionevole” è una quantità che dipende da un mucchio di cose: soldi, mercato, lavoratori, fornitori, clienti, reputazione. Di solito, più piccolo è il valore di “ragionevole” più devono crescere i soldi investiti, esponenzialmente.

A quel punto arriva qualcuno che stende un piano molto dettagliato dove ci sono scritte un po’ di cose, divise in due parti. La prima parte dice cosa deve fare l’azienda, ora e per sempre, per avere un paracadute adeguato al “ragionevole”, la seconda indica cosa deve succedere se una delle sfighe che ho elencato qui sopra dovesse avverarsi. Per la prima parte si comprano un po’ di cose e/o servizi, si stipulano un po’ di contratti, si avviano un po’ di processi e si imposta un meccanismo periodico di verifica che tutto sia adeguato, aggiornato e che funzioni, magari facendo anche delle prove.

La seconda parte è più insidiosa, perché deve immaginare situazioni, prevedere scenari e escogitare soluzioni adeguate. Le cose di base sono di solito: come si decide che quello che sta succedendo sia effettivamente un “disastro” e chi decide se è necessario avviare la procedura di ripristino. Una volta che il piano è partito, se chi lo ha steso ha fatto bene i compiti, le aree grigie finiscono. Nessuno deve prendere decisioni, perché prendere decisioni in momento di crisi porta ad errori. C’è un elenco di persone/funzioni (intercambiabili) e un elenco di azioni che devono essere intraprese, senza pensarci, al limite senza capirle, a prova di scimmia se vuoi. “Prendi A, B, e C e mettili in D. Spegni X e fai partire Y. Lavora dal punto K utilizzando gli strumenti R e S che trovi in Z” E così via, dettagliando il tutto in modo che l’esecuzione sia veloce, documentata e rapida. Il punto chiave è che, lo ridico, le decisioni devono già essere state prese, gli scenari previsti, le ramificazioni esplorate, ruoli assegnati. Le gerarchie chiare e non necessariamente le stesse dei tempi “normali”.

Ti viene in mente qualcosa che è successo ultimamente che avrebbe avuto bisogno di un piano del genere? A me sì. 🙂 Io sono (stato) un sistemista ormai anziano, e il motto preferito dalla categoria è “Spera per il meglio e preparati al peggio”. (Che, incidentalmente, è uno dei motivi per cui la notte del 31 dicembre 1999 avete potuto festeggiare tranquilli e svegliarvi il pomeriggio del 1 gennaio 2000 con tutto funzionante. E non è stato perché “tanto rumore per nulla, avete fatto del terrorismo inutile”, ma perché abbiamo tutti lavorato mesi per.)

Nella mia ingenuità sistemistica io ero convinto che l’OMS in tempi non sospetti si fosse seduto a un tavolo con tutte le nazioni del mondo (alla NATO, a Parigi, a Busalla, dove volevano loro) con una bella lavagna bianca con su scritto “COSA FARE IN CASO DI PANDEMIA GLOBALE”, e tanti pennarelli colorati, e un tizio avrebbe proiettato un gazzilione di slide Power Point piene di bullet list. E poi ciascuno dei rappresentanti nazionali sarebbe tornato a casa dove, dopo altre ottordicimila slide e un po’ di riunioni, ognuno avrebbe saputo come, quando e cosa fare un caso di pandemia globale. Con regole scientifiche, con criteri epidemiologici e statistici coerenti, uniformi e uguali per tutti. Naturalmente le ramificazioni sono tante e gli scenari molto fluidi, ma ci dovrebbe essere gente pagata per pensarci, no?

E invece scopro che i malati, gli infetti e i sospetti si contano in modo diverso a 100 chilometro di distanza, che vengono trattati con protocolli diversi, che non ci sono piani, infrastrutture, emergenze, non c’è nulla. Non sai cosa fare quando a 7500 chilometri da qui comincia a svilupparsi un focolaio di una malattia di cui non esiste la cura. Come fai a capire quanto siamo nei casini se ognuno conta e fa i test alla gente con un criterio diverso? Mistero. E se non hai dati certi, come puoi prendere contromisure adeguate? Come fai addirittura a capire de davvero è un “disastro” e quando intervenire”. E non li hai fatti prima i conti di quanto ti costa in punti di PIL stare fermo per un’ora, un giorno, un mese, un anno? Forse, forte di questi conti, due lire le avresti investite in un piano decente, no? Perché devi prendere decisioni al volo, ora, quando sai benissimo che nelle crisi, in fretta, è facile prendere decisioni sbagliate?

Ecco, al di là della politica, che poco c’entra perché la biologia se ne catafotte, la mia delusione è stata scoprire che non c’era nulla che potesse funzionare. La “O” di OMS sta per “Organizzazione”: vorrei sapere cosa organizzava. Vorrei sapere perché siamo così deficienti da non avere un vero coordinamento mondiale che intervenga con dei protocolli comuni in un caso del genere.

Anche perché questa volta ci è andata di culo (sì, di culo) perché ci sono alcune precauzioni individuali che possono diminuire significativamente i rischi, ma pensa se non fosse questo il caso. Se non bastasse stare lontani e lavarsi le mani, se i vettori fossero i moscerini, o i pollini, o qualunque altra cosa da cui è quasi impossibile isolarsi. Cosa sarebbe successo? “State a casa” sarebbe inutile. Quindi? Qual è la strategia? Qual è il piano? Boh.

Mi rendo perfettamente conto che non ci sono soluzioni semplici a problemi complessi, ma almeno provarci, avere una coerenza di analisi e intervento. Invece nulla. Siamo dei cialtroni, tutta l’umanità, e prima o poi ci lasceremo tutti le penne. Il pianeta e gli animali, che su larga scala di noi se ne strafottono, si riprenderanno tutto.


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Commenti

3 risposte a “Cronache da una pandemia, S01E13”

  1. Avatar Tino
    Tino

    Hai perfettamente ragione, caxxo!

  2. Avatar Franco
    Franco

    God save Andrea Beggi !

  3. Avatar John Dekker

    Hai perfettamente ragione in tutto, ma passata la rabbia che è rabbia diffusa di tantissimi come te, capirai che le tue ultime parole sono eccessive; magari guardando negli occhi persone, anche, se vuoi, inconsapevoli,
    che si sacrificano per ottenere qualche risultato per far si che la sofferenza complessiva sia attenuata.
    Il gratuito esiste è Santo e ci salverà.
    Un abbraccio.
    Sappi che trovo bellissimo questo nuovo look del tuo blog. 🙂